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martedì, dicembre 08, 2009

Ho fatto trenta... e ora faccio trentuno

E sono 31!!!
Trentuno anni in cerca di sogni che adesso devo assolutamente concretizzare!
Grazie mamma e papà per avermi messo alla luce, grazie sorella di essere venuta finalmente a trovarmi a Roma (anche se mi hai fatto dormire poco e camminare tanto) e grazie a tutti voi (parenti, amici e lettori) che mi caricate di energia vitale.

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venerdì, dicembre 04, 2009

JOE SCALTRO (ennesima rivisitazione)

Penso sia la terza o quarta volta che propongo la solita solfa del personaggio immaginario Joe Scaltro. Probabilmente è la versione definitiva della parte zero del mio futuro romanzo (ancora in altissimo mare). Ripeto, soprattutto per i miei genitori e le mie nonne, che ogni evento o riferimento è puramente casuale, compreso il protagonista che è molto più figo ma anche molto più banale di me. Spero di potervi presto proporre il prosieguo delle vicissitudini del mio caro antieroe.

p.s. Per i benpensanti o finti tali: scusate le eventuali volgarità, ma sono essenziali per la resa del personaggio.


JOE SCALTRO


- Parte zero -


Quella notte il cielo era rosso come la passione di due amanti in orgasmo.
Tirava vento e alcune gocce di pioggia iniziarono a schiaffeggiarmi le guance, rimanendo per un istante intrappolate nelle trame della barba incolta.
Non sapevo nemmeno come mai mi trovassi in quella zona della città.
Soprattutto, non sapevo che zona fosse, cazzo.
Da quanto, poi, ero in quel posto?
In piedi. Immobile. Semplicemente mi trovavo lì. Su un marciapiede qualunque, mai calpestato dai miei passi prima di allora.
La pioggia mi schiaffeggiava sempre più forte. Nessuno in giro. Niente di vivo attorno. A parte me, il mio giramento di testa (e di palle) e la pioggia accompagnata dal vento.
Cercai il cellulare nelle tasche del jeans. Non lo trovai. Non potevo telefonare e non potevo sapere l’orario. Prima o poi mi sarei dovuto comprare un orologio, pensai.
Cercai l’i-shuffle e gli auricolari nella tasca interna della giacca. Niente da fare. Cazzo!
Frugai in ogni anfratto dei vestiti. Nessun documento. Neanche un euro. Porca puttana!!!
Mi accorsi all’improvviso di avere la mia fidata borsa in finta pelle adagiata tra i piedi. Mi sentii un po’ meglio. La raccolsi. Feci scorrere la cerniera. Dentro c’erano una coppola grigia, una moleskine, una penna bic nera, un pacchetto di Winston Blu morbide, un accendino viola, una chiave di metallo, due banconote da 20 e una decina d’euro spiccioli.
La coppola, la moleskine, la penna e le sigarette erano mie. Ne ero sicuro. I soldi, la chiave e l’accendino no. Ne ero altrettanto sicuro.
Mi misi il cappello. Richiusi la borsa.
Evitai di farmi domande. Non era il caso in quel momento.
Avevo bisogno di bere qualcosa. Avevo bisogno di riparo. Avevo bisogno di riordinare il cervello.
Così, mi misi a vagare a cazzo di cane per quelle strade che non avevo mai visto, in cerca di un pub o qualcosa di simile.
Vivevo a Roma ormai da un paio d’anni, ma non avevo la più pallida idea di dove mi potessi trovare.
Soprattutto, perché lì?
Cosa mi era successo? Perché non ricordavo?
Troppe domande a cui non sapevo rispondere. Ero incazzato e nervoso, ma mantenni stranamente la calma.
Ero stanco e intontito, pesante e leggero allo stesso tempo.
Continuai a farmi trascinare dalle gambe e da quel poco d’istinto che m’era rimasto non so per quanto tempo, fino a quando non riuscii a scovare un pub.
Lessi l’insegna di legno marcio attaccata alla porta d’ingresso. C’era scritto “Pub”.
Entrai.

Mi sedetti su uno sgabello vicino al bancone. Salutai il barista. Lui non rispose. Chiesi uno shot di rum. Me lo portò. Lo scolai di botto.
Chiusi per alcuni secondi gli occhi e qualcosa riaffiorò nella mente…
Erano ormai passati svariati giorni dall’ultima volta che mi ero fatto la barba.
Erano trascorse troppe ore senza un bagno caldo, o un pasto che potesse minimamente definirsi degno di tal nome.
Niente tv. Niente radio. Niente computer. Niente libri e giornali. Niente sesso. Niente.
Chissà quante ore avevo trascorso a inseguire la mia ombra lungo le strade di questa lurida città…
Nemmeno un ricordo piacevole. Neanche un ricordo spiacevole.
Poco tempo a disposizione da dedicare al mio ego.
Ricordai qualcos’altro…

Avevo accettato quel fottuto caso. Tutto perchè ero ridotto sul lastrico, e avevo bisogno di soldi per il rum invecchiato e le sigarette. Potevo rinunciare a tante cose. Non ai vizi.
Mentre provavo a ricostruire le ultime ore della mia vita, il barista scherzava languido con due americane (le riconosco facilmente) sedute al bancone.
Decisi che era ora di un secondo bicchierino. Ad alta voce ne ordinai un altro al mandrillo.
Portai pollice e indice della mano destra alla tesa del cappello e me lo aggiustai per bene sul capo, con fare indifferente, sovrappensiero, come se quel gesto fosse un tic di vecchia data.
C’era della musica in sottofondo. Riconobbi le note dei Pink Floyd: Is There anybody out there?
Osservai scoglionato le due cowgirls.
Sistemai nuovamente il cappello, affinché coprisse i miei occhi da illuso trentenne senza un briciolo di idee buone in testa.
Non sapevo come procedere. Il caso si era rivelato più ostico del previsto. Non il solito pedinamento di mogli fedifraghe o mariti puttanieri.
Stavolta non si trattava di roba leggera. Questa volta si faceva sul serio. Questa volta c’era scappato il morto ed io non sapevo ancora dove andare a parare. Fondamentalmente mi ero reso conto di essere un gran cagasotto.
Dovevo recitare la parte del più forte, e sapevo quanto fosse ardua, persino per un abile attore come me.
- ... Sono un grande attore, ma il ruolo del più forte non è mai stato il mio forte... -, mi dissi, probabilmente ad alta voce.
Appuntai il gioco di parole partorito dai miei offuscati pensieri nell’inseparabile moleskine.
Mi apprestai a scolare la seconda dose di veleno ambrato; destinazione budella.
Fu in quel momento che decisi di agire.
Lasciai degli spiccioli sul bancone appiccicaticcio.
Salutai il barista senza ottener risposta. Troppo impegnato a pavoneggiarsi con le due oche ‘mbriache. Non mi curai della sua indifferenza.
Uscii tampinato dai gridolini alcolici delle due squaqquerone d’oltreoceano. Già condannate. Condannate ad un’orgia con quel coglione alto due metri. Me le lasciai alle spalle insieme alla scia di fumo della sigaretta che mi accesi appena fuori da quel locale di merda.
Ero riuscito a richiamare alla memoria qualche vago ricordo grazie alla sosta alcolica. Ma ancora non avevo risposto ad un paio di domande essenziali: cosa cazzo ci facevo e come c’ero finito in quella parte della città? E perché, porca puttana, avevo quei vuoti di memoria?
L’avrei scoperto. Porco Giuda, l’avrei scoperto.
Sapevo per certo che ero a caccia di fantasmi…
Fantasmi tutt’altro che morti, condannati alla furia del più scaltro detective mai esistito al mondo da quando l’uomo inventò la religione.
Se non lo aveste ancora capito, il più scaltro dei detective sono io.
Joe Scaltro. Scaltro per gli amici.
Per i nemici non ho nome. Per loro sono solo un volto.
Un volto di cui aver paura. Un volto, il cui sguardo non potranno evitare.
Un volto, la cui smorfia di cieca ira non potranno scordare.
Perché sono Joe Scaltro.
Scaltro per gli amici.


TO BE CONTINUED…

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